A Sinalunga
Descrizione
L’edificio, trecentesco, romanico, è tra i più antichi di Sinalunga alta. Ora si presenta come una chiesa, peraltro di recente convertita in auditorium, ma in principio era il “concionatorio”, ovvero un luogo per le pubbliche adunanze (già citato come tale in in un documento del 782) del quale l’odonomastica conserva la memoria.
L’esterno della chiesa è semplice: nella facciata, a capanna, si aprono un portale con timpano triangolare e un piccolo rosone circolare, entrambi rifiniti in pietra grigia. All’interno, ad un’unica navata, corrisponde altrettanta semplicità. Addossati alla parete di fondo si trovano tre altari in stucco della seconda metà del XVII secolo. Quello di destra reca un affresco che, datato alla seconda metà del XV secolo, ritrae la Madonna col Bambino in trono, San Giovanni e San Rocco, quest’ultimo, insieme a San Cristoforo, è per tradizione Santo protettore dei pellegrini. L’altare di sinistra ospita un dipinto seicentesco, attribuito ad Antonio Nasini (Castel del Piano,1643- Torrenieri 1715) che raffigura i Santi adoranti la Croce. Sulla parete sinistra si trovano altri due altari in stucco ove erano inserite la tela con la Madonna del Carmine del Rustichino (Siena, 1592 – 1625) ed una grande pala di Benvenuto di Giovanni raffigurante la Madonna col Bambino fra i Santi Martino e Sebastiano. Entrambe queste ultime opere sono attualmente conservate nella collegiata di San Martino.
Latitudine 43.213716 – Longitudine 11.738361
Descrizione
La costruzione della Collegiata fu decisa in un “generale consiglio”, tenuto il 12 Aprile 1587; la costruzione, con l’appoggio del Gran Duca Ferdinando I, procedette speditamente e il 25 Marzo 1595 fu celebrata la prima messa. La struttura, realizzata in cotto e in materiali provenienti dalla distrutta rocca di Sinalunga, si erge su di un alto sagrato affacciato su piazza Garibaldi.
La facciata, armonica e proporzionata, a capanna, è rivestita di intonaco chiaro e scandita da una partitura di quattro lesene tuscaniche in mattoni rossi. Al centro del sagrato si apre il portale sormontato da un rosone circolare. La facciata è coronata da un timpano triangolare al centro del quale si colloca una finestra rettangolare, entrambi gli elementi sono anch’essi in laterizio.
L’interno della collegiata presenta una struttura a pianta a croce latina, con unica navata e transetto. Il soffitto è coperto con volta a botte. La crociera è sormontata da un tiburio ottagonale (aggiunto e verso la metà del diciassettesimo secolo) in laterizio. Semiottagonale è anche l’abside mentre all’interno tutte le linee si presentano arrotondate. La navata, intonacata in bianco, riverbera la luce naturale che filtra da due sole finestre di contro facciata. Al lati si aprono otto profonde cappelle, in numero di quattro per lato ospitanti ognuna un altare. Alla sinistra del portale, dentro una nicchia, si trova il fonte battesimale, con coperchio ligneo scolpito. Il presbiterio è delimitato da una balaustra marmorea ed ospita l’altare maggiore in stucco, sormontato da un tabernacolo in marmi policromi. Alle spalle dell’altare, vi sono gli stalli lignei del coro.
L’interno ha pianta a croce latina con navata unica e transetto coperti con volta a botte; la navata è illuminata dalla luce naturale di due finestre di contro facciata, affiancata da otto profonde cappelle laterali collocate in numero di quattro per lato e ospitanti ognuna un altare. Alla sinistra del portale, dentro una nicchia si trova il fonte battesimale con coperto ligneo scolpito. La crociera è coperta da un tiburio ottagonale. Il presbiterio è delimitato da una balaustra marmorea ed ospita l’altare maggiore in stucco, sormontato da un tabernacolo in marmi policromi. Alle spalle dell’altare vi sono gli stalli lignei del coro. Al centro della cantoria a mezzaluna che decorre lungo l’abside, in posizione sopraelevata rispetto all’antistante altare maggiore, si colloca l’ottocentesco (1843) organo a canne Nicomede Agati opus 316.
All’interno della collegiata sono conservate molte opere pregevoli, alcune delle quali ornavano, in precedenza, la vecchia Chiesa di San Martino poi divenuta Santa Croce. Tra le altre opere vi sono: un crocifisso ligneo del ‘500; una Deposizione di Girolamo del Pacchia (Siena, 1477 circa – dopo il 1533); una tavola fondo oro con Madonna col Bambino, due Santi e due angeli di Benvenuto di Giovanni (Siena, 1436 – Siena, 1509/1518) del 1509; una Madonna col Bambino e Santi del Sodoma (Vercelli, 1477 – Siena, 1549); uno Sposalizio della Vergine di Rutilio Manetti( Siena 1571 – Siena, 1639) del 1612; una Santa Caterina da Siena che presenta Sant’ Antonio da Padova col Bambino alla Madonna, di Francesco Nasini (Piancastagnaio, 1621 – Castel del Piano, 1695); e un quadro raffigurante i Santi Caterina da Siena, Domenico, Martino, Francesco, Lucia e Caterina d’Alessandria opera di Giuseppe Nicola Nasini (Castel del Piano, 1657 – Siena,1736) del 1697. In sagrestia si trova una Madonna col Bambino della scuola di Benvenuto di Giovanni.
Al fianco destro della Collegiata si colloca la chiesetta di S. Croce, un tempo intitolata a S . Matino con facciata del secondo ‘600 che conserva al suo interno uno Sposalizio della Vergine della scuola di Luca Signorelli (Cortona, 1450– Cortona, 1523) e, sull’altare maggiore, una tela della scuola di Ventura Salimbeni (Siena, 1568 – Siena, 1613).
Latitudine 43.212498 – Longitudine 11.736569
Descrizione
Nella parte bassa dell’abitato, ovvero nel tessuto di quello che era in origine il borgo Pieve, poi nei secoli conurbato col borgo d’altura, al principio della strada che ascendeva a Torrita, si colloca la Pieve di San Pietro a Mensola. La tradizione vuole che la piccola chiesa campestre fosse tra le sette chiese fondate, nel IV secolo d.C., da San Donato vescovo di Arezzo. Il primo documento relativo all’edificio data al 715 e consta di una definizione di confini nei quali è citata la “Sancta Mater Ecclesia in Mensolas”. In numerosi documenti posteriori la pieve è citata variamente come San Pietro ad: Mensulas, Mensule, Missula, Misule, Mensulam. Il toponimo “ad Mensulas” attribuito alla chiesa individuava già un’antica mansio romana citata nella Tabula Peutingeriana e varie sono le interpretazioni circa la sua origine. Per alcuni tratterebbesi di un oronimo facente riferimento alla morfologia a gradoni (mensulae, in italiano mensole, declinate in spagnolo come mesas o mesetas) che si trova tra la pieve ed il poggio di San Niccolò su cui si erigeva dapprima il castrum romano e poi il borgo di Sinalunga. Per altri storici il nome deriverebbe da romane tavole di pietra sepolcrale utilizzate come are per i sacrifici agli Dei Mani e come mense imbandite per i defunti sepolti in un antico cimitero al quale la chiesa è venuta a sovrapporsi. Quale che sia l’origine del toponimo certo è che la pieve sorge effettivamente nell’area cimiteriale di una facoltosa famiglia romana del luogo: gli Umbrici come prova una stele funeraria dedicata a Caio Umbricio dal figlio Lucio Clemente. Per la costruzione della chiesa furono utilizzati materiali lapidei provenienti da edifici romani preesistenti, ed evidenti sono le varie pietre, murate nelle pareti, che recano iscrizioni in latino. Nel 1935 la pieve di San Pietro ad Mensulas subì un’opera di profondo restauro che ne rialza il pavimento di quasi un metro, trasforma il tetto a capanna semplice in una copertura composta, appone una lunetta sopra il portale d’ingresso ed apre due piccole monofore in forma simmetrica ai lati del portone, sostituisce ad una finestra quadrangolare una bifora e causa la perdita di alcune pietre romane. L’interno si considera pressoché immutato nella sua struttura generale con pianta basilicale a tre navate, divise da una successione di cinque archeggiature per parte, che confluiscono in una sola abside a forma rettangolare. La piccola Pieve custodisce dipinti del XV e XVII sec e un affresco della Madonna con bambino e Santi della scuola di Guidoccio Cozzarelli.
Latitudine 43.213793 – Longitudine 11.743711
Descrizione
Datata ai primi decenni del Cinquecento la piccola chiesa rurale è costruita in forme monumentali che, afferma lo storico dell’arte Bruno Santi in un saggio del 1996 sintetizzato nella presente scheda “appaiono singolarmente contrastanti con l’ubicazione isolata e pienamente rurale della cappella. La sua architettura possiede le caratteristiche quasi di tempio aulico e gentilizio, spiegabile certo con l’appartenenza all’illustre tradizione delle nobili famiglie che hanno dimorato nella villa” (Santi, 1996). L’altare è incorniciato in un’edicola classicheggiante che si rifà alle cappelle secentesche della Cattedrale dell’Assunta di Siena e già prelude, per sfarzo e morbidezza, allee linee sinuose del barocco. Nel timpano due angeli reggono il baldacchino che reca la colomba dello Spirito Santo. La parete di fondo è ornata da tre affreschi di straordinario pregio, realizzati nel 1530 dal pittore vercellese Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma. La composizione centrale consta di una Sacra conversazione affollata di figure radunate attorno ad una Madonna in trono col Bambino, tema ricorrente nei cammini mariani e già osservato nel pregevole affresco di Sant’Ippolito ad Asciano. A sinistra della Vergine, in primo piano San Michele Arcagelo, con spada fiammeggiante, effettua la psicostasia su una bilancia dorata. Nel piatto più alto e vicino al Bambino, un’anima leggera, orante, implora per la sua anima ricevendo la salvezza dal piccolo Gesù benedicente. Nell’altro piatto più distante e basso per la gravità del peso, si colloca l’anima dannata.
Alla destra della Vergine si distinguono Sant’Antonio da Padova, raffigurato come di consueto col cuore ardente in mano, e Santa Caterina da Siena. Più in basso Raffaele e Tobiolo si guardano intensamente. A sinistra si collocano una giovane Santa incoronata, forse Caterina d’Alessandria; e San Giovanni Battista, tradizionalmente raffigurato col cartiglio indicante il Redentore. Sulle pareti più piccole ai lati dell’altare sono ritratti, rispettivamente a sinistra un San Girolamo accompagnato dal leone e contemplante il crocifisso durante la penitenza e, a destra, un San Francesco in atto di ricevere le stìmmate e circondato da un paesaggio selvatico, aspro e solitario che rimanda alle suggestioni ieratiche della Verna, animato solo dalle minute figure di qualche sparuto viator. Secondo lo storico dell’arte Divo Savelli in queste minute figurine che più e più volte ricorrono negli sfondi degli affreschi sulle vie di pellegrinaggio è possibile ravvisare la Sacra famiglia nel viaggio ritorno dalla fuga in Egitto ritratta a rassicurazione dei pellegrini, in empatica condivisione con essa, delle tribolazioni del cammino. Questi affreschi, prosegue Bruno Santi “rivelano nella sapienza della composizione, nella sicurezza del disegno, nelle fisionomie avvenenti delle figure, ormai ispirate alle levigate immagini di Raffaello Sanzio, la mano del Sodoma, uno dei maggiori maestri de Cinquecento. Uno spirito estroso, abile decoratore per papi, famiglie aristocratiche ed ordini religiosi (notissimo e ammirato il ciclo di affreschi con le Storie di San Benedetto nell’archicenobio benedettino del vicino Monte Oliveto Maggiore). Nonostante i pesantissimi ripassi e le grevi ridipinture, gli affreschi della cappella della Fratta indicano con pienezza la maestria e le capacità espressive del pittore che qui ci espone l’arte della fase matura della sua attività, con l’infittirsi delle figure e toni cromatici più impastati e chiaroscurati” (Santi, 1996).
L’apparato decorativo della cappella si arricchisce anche di due composizioni sacre, settecentesche, modellate in stucco, collocate su due altari laterali. Nell’altare di destra si colloca un crocifisso ligneo, circondato da angeli e venerato da due figure inginocchiate. In una di queste è facilmente individuabile la figura di San Rocco che, con l’attributo del bordone del pellegrino, è ritratto di sovente a protezione dei viandanti lungo le vie peregrinalis. Nell’altare di sinistra si colloca il busto della Madonna, anch’essa circondata da cherubini e anch’essa venerata dalle figure inginocchiate dei santi più cari ai senesi: Santa Caterina e San Bernardino, che reca in mano l’Orifiamma ovvero il sole radiante che col trigramma di cristo IHS (Iesus Hominum Salvator) che ricorre nell’apparato iconologico che costella la via di pellegrinaggio ma che anche si colloca a protezione di tanti palazzi pubblici e privati del senese. Infine anche i virtuosismi e la foggia elegante dei candelieri bronzei dell’altar maggiore, recanti lo stemma dei Gori Pannilini, sono concepiti con una sapienza formale che palesa la preparazione tecnica della manifattura settecentesca che li ha realizzati. Anch’essi, come l’altare centrale, che pur essendo ben più tardi s’ispirano agli omologhi modelli che costituiscono l’apparato decorativo della cattedrale dell’Assunta di Siena.
Latitudine 43.191541 – Longitudine 11.767169
Descrizione
«Il palazzo della Fratta di Torrita, scriveva Romagnoli, è opera squisita di Baldassarre Peruzzi. La cappella ha superbe pitture del Sodoma. Dodici case coloniche fabbricate intorno al palazzo, un vasto granajo e una gran tinaja rendono questo locale de’ Signori Pannilini di meritevole osservazione».
E. Repetti, Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana, 1833.
L’insediamento originario della Fratta è composto dal palazzo, a pianta pressoché quadrata, risalente al terzo o al quarto decennio del Cinquecento; da un cortile, con pozzo; dalla cappella e dal giardino. Quest’ultimo, preceduto da un viale di accesso alberato, è realizzato in forme geometriche secondo il tipico modello delle ville rinascimentali del senese, complessi unitari in cui il giardino acquista, oltre alla valenza estetica, la funzione di collegare l’architettura allo spazio esterno della campagna circostante costruita e plasmata secondo un ordine proprio del pensiero e della cultura del Rinascimento. Aggiunta in epoca successiva è la loggetta che si innalza al di sopra del tetto. Il Repetti attribuisce l’architettura al Peruzzi ma, in mancanza di documenti che attestino con certezza la paternità dell’opera, non si può escludere che il palazzo della Fratta possa essere opera di Bartolomeo Neroni, detto il Riccio (1500-1571), allievo e stretto collaboratore del maestro, né che sia il frutto di una progettazione condivisa tra i due.
L’edificio, in ogni caso, raccoglie la lezione di Peruzzi, sia nella facciata, sia nella pianta, con l’articolazione degli ambienti strutturata, per i diversi piani, su un atrio che immette in un salone centrale attorno al quale si aprono gli ambienti di servizio e con la scala di comunicazione tra i piani superiori in posizione d’angolo. Le tre finestre accentrate nella parte mediana del fronte principale richiamano idealmente la struttura con loggia e portico che si ritrova nella facciata posteriore anche se le cinque arcate a tutto sesto in mattoni, in quanto cieche, sono, essenzialmente, un riferimento compositivo derivato da un modello. Il porticato si apre su un cortile lastricato con un pozzo, sormontato da un architrave sagomato, sorretto da due colonne composite, recante al centro lo stemma Gori Pannilini. Il cortile, a cui si accede mediante un ampio portale aperto nel muro che connette il corpo villa con il lungo fabbricato, aggiunto in epoca successiva, adibito per le abitazioni coloniche, è lo spazio di raccordo tra i vari fabbricati ed annessi della villa quali la fattoria e la cappella. Quest’ultima è inglobata nel corpo della tinaia, con facciata composta da elementi quali cornici e lesene angolari, portale architravato, finestra con timpano curvilineo in mattoni.
Lungo uno dei lati del cortile si estende il già citato giardino, delimitato da muro di cinta, diviso in due settori ov’è leggibile il disegno originario con aiuole formate da basse siepi di bosso che si compongono in cerchi al centro e semicerchi ai lati. Oltre il giardino un ampio prato è delimitato da un lato dall’edificio di fattoria e da un altro lato dalla limonaia, che riporta sulla parte frontale un’iscrizione che recita: perché la freschezza e la fragilità dei fiori rallegrino dalle fatiche dei campi e ricordino la fugacità della vita per i suoi agricoltori piantavo questo giardino Augusto de’ Gori l’anno MDCCLXV.
Oltre che dagli edifici padronali la tenuta è formata da numerosi ed ampi fabbricati agricoli. Dodici case coloniche (ognuna dedicata ad un apostolo) sono riunite in due ampi fabbricati, a sviluppo longitudinale, situati sui lati opposti della strada. Appaiono caratterizzati da una lunga ed ininterrotta successione di arcate a tutto sesto in mattoni a formare un lungo porticato dove si aprono gli accessi alle abitazioni, alle stalle e ai magazzini a piano terra. È un complesso di vaste proporzioni dalle caratteristiche pressoché uniche nel quadro dell’architettura rurale del XVII secolo, ma anche per l’intera Valdichiana dove simili complessi agricoli sono comunque diffusi. L’eccezionalità della Fratta è data soprattutto dall’uniformità dei caratteri architettonici che documentano come questa sia il frutto di un progetto unitario che riprende i modelli ‘colti’ dell’architettura fiorentina del Cinquecento rappresentata soprattutto dalle ville medicee e per questo simbolo di una cultura architettonica rurale che ebbe proprio in Valdichiana alcune delle sue espressioni più alte.
Adiacente al portone di ingresso principale alla villa, sempre affacciato sul cortile, ancora oggi continua a svolgere la sua originaria funzione, conservando ancora la targa all’esterno: «… lo scriptojo, ove l’agente conserva i libri per registrarvi le raccolte, le compre e le vendite del bestiame, come pure lo spaccio delle grasce e tutte le altre partite, che devono tenersi in buon punto in una buona amministrazione» ovvero quella che il Giulj nella sua Statistica agraria della Valdichiana del 1828, ha definito come la stanza principale della fattoria.
Per la sua bellezza, per la razionalità e la significatività architettonica del suo spazio la Fratta, e i suoi paesaggi agrari, sono stati eletti, nell’estate 2018, le ambientazioni del Pinocchio di Matteo Garrone.
Latitudine 43.191725 – Longitudine 11.767400
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